Ritorno ad Haiti a 5 anni dal terremoto
Pubblichiamo oggi la testimonianza di Sarah Tyler, una nostra collega di Save the Children International, tornata ad Haiti a 5 anni dal terremoto che ha ucciso più di 200 mila persone.
Se mia madre e mio padre fossero vivi mi avrebbero protetto. Non mi avrebbero lasciato vivere così.
Queste sono le parole di Lovely, una timida bambina, lavoratrice domestica di 14 anni. Myrlande, mia collega di Haiti, sta traducendo per me le sue parole in inglese. Sono tornata ad Haiti per conto di Save the Children Italia che, cinque anni dopo il terremoto, ha commissionato a un famoso fotografo di produrre una serie di ritratti di bambini. Ero stata qui un paio di giorni dopo il drammatico terremoto che nel 2010 ha ucciso più di 230.000 persone, lasciando 2 milioni di persona senza casa. Sento un forte legame con Haiti, così quando ho avuto la possibilità di tornare, l’ho colta. Siamo seduti in una piccola scuola di Port-au-Prince. Si tratta di un luogo scelto a causa del suo anonimato. La responsabile della protezione dei minori che siede con noi è incinta.
Mi domando cosa stia pensando della situazione di Lovely. Myrlande e io siamo qui per intervistare bambini impiegati in lavori domestici, il lavoro domestico minorile è infatti un grosso problema ad Haiti, con 225.000 bambini di età compresa tra 5 e 17 anni coinvolti - soprattutto ragazze - che praticamente vivono come schiavi. Sono intrappolati in questo stile di vita a causa di una serie di eventi collegati. Alcuni di loro sono orfani, ma spesso sono stati dati via dai propri genitori o famigliari, nella speranza di avere in cambio per loro cibo, rifugio o l’accesso all’istruzione che le famiglie non potevano permettersi.
Purtroppo, questi sperati benefici raramente si materializzano, perché i bambini si ritrovano a vivere in famiglie altrettanto povere che non possono provvedere né a loro, né ai propri figli. Lovely ci dice che viene picchiata regolarmente e che spesso non le viene dato da mangiare. Si sveglia alle 5 del mattino, cucina, va a prendere l’acqua al pozzo e fa tutte le pulizie. Ho già detto che ha solo 12 anni! Continua a raccontare:
non sono mai tornata a scuola. Ci andavo, ho frequentato fino alla terza, ma da quando mia madre e mio padre sono morti, ho smesso. Vorrei andare a scuola, vorrei diventare qualcuno domani, anche se non so cosa. Voglio dire ad altri bambini nella stessa situazione, a quei bambini che come me non hanno una madre e un padre, di non scoraggiarsi, perché la vita è come un ruota, gira e non si sa quando si fermerà.
Ad Haiti Save the Children sta lavorando, a livello nazionale per sensibilizzare sul tema della violenza contro i minori e, a livello locale, con le organizzazioni che si occupano di protezione, per sradicare questa pratica. Lasciamo Lovely con il cuore pesante, sapendo che le organizzazioni che stanno lavorando su questa questione, devono agire molto più rapidamente per dare a bambini come lei la possibilità di una vita migliore. Tornati in macchina, riprendiamo il nostro viaggio in mezzo al traffico molto intenso. Le macerie, che un tempo erano ai bordi delle strade, sono scomparse e gli edifici crollati, sono stati ricostruiti. Le piccole imprese e i mercati lungo la strada pullulano di prodotti, ma i maiali sono ancora qui, ai bordi delle strade fra la spazzatura e l’acqua inquinata delle grondaie. La nostra prossima tappa è una scuola primaria sostenuta da Save the Children, fin da subito dopo il terremoto. Abbiamo contribuito a rimuovere le macerie e a riparare le aule - e ancora oggi continuiamo a dare il nostro supporto formando gli insegnanti. L'istruzione è un obiettivo importante del nostro lavoro ad Haiti. Deve esserlo: solo 2 bambini su 10 imparano a leggere entro la fine del primo grado e il 15% dei bambini abbandona la scuola prima del sesto grado. Più del 50% della popolazione adulta è analfabeta. Anche se i segni del terremoto sono per lo più scomparsi, i ricordi di quel giorno sono ancora molto presenti per i bambini che incontriamo. Ci raccontano le loro storie su quel fatidico giorno. C'è Jeantal che non ha potuto salvare il bambino che cercava di proteggere, quando un muro gli è caduto addosso. Ci racconta che ogni 12 gennaio ha dei fortissimi mal di testa, è chiaramente ancora molto scosso dai suoi ricordi. Poi c'è Oswaldynyo, che ha 9 anni e si riferisce a se stesso chiamandosi petit homme. Sulla sua fronte ha una cicatrice causata da dei mattoni crollatigli addosso. Ci ha raccontato delle prove di evacuazione che fanno a scuola, in modo da potersi proteggere da un altro terremoto. Ci dice che ama la scuola e tiene i suoi libri scolastici stretti a sé durante l'intervista, preferisce tenere lo sguardo fisso su loro invece che su di noi. Lui è preoccupato che i suoi genitori non abbiano i soldi per i libri di scuola o la sua uniforme. E poi c'è Betchina, una tenera e timida bambina di 13 anni. Lei ci mostra il suo ginocchio che ha ancora una cicatrice enorme causata da un blocco di cemento, cadutole addosso durante il terremoto. Vuole diventare un’infermiera per aiutare i feriti e per prendersi cura dei suoi genitori. Il terremoto ha lasciato a questi bambini cicatrici fisiche, ma soprattutto emotive. Come si fa a rassicurare bambini le cui vite sono state sconvolte, che non accadrà ancora? Nel nostro lavoro ci sono spesso momenti in cui incontriamo bambini che ci lasciano un segno forte. Betchina è una di questi bambini. La lascio sperando con tutto il cuore che ottenga ciò che desidera. La vita del campo è diventata ormai una cosa normale per oltre 85.500 persone sfollate a causa del terremoto. Di questi più della metà sono bambini. Ci sono ancora circa 123 campi. I servizi di base come l'acqua potabile e l’assistenza sanitaria sono molto limitati e i casi di abuso sono frequenti. Durante il mio viaggio ho incontrato cinque bambine che vivono in uno dei più grandi campi, hanno paura per la loro sicurezza, temono le bande armate e hanno persino paura di andare in bagno, per timore di subire abusi sessuali. Nonostante la paura e le dure condizioni di vita, queste ragazze sono una fonte di ispirazione grandissima. Sono leader dei nostri gruppi di protezione dei bambini e sono certe che continuando la loro formazione potranno far rispettare i propri diritti. Durante il nostro incontro è accaduto qualcosa di fantastico. Mentre intervistavo Marie Darline, lei ha iniziato a interrogarci sulla nostra missione e sul modo in cui avremmo continuato a sostenerla per raggiungere il suo obiettivo di diventare un diplomatico. Poi è stato il turno di Katiana che ha testato il suo spagnolo con me, fino a quando non ha deciso che aveva trascorso abbastanza tempo a rispondere alle nostre domande. Ho lasciato questo campo piena di stupore per il lavoro che i nostri operatori di comunità fanno con questi bambini, creando dei giovani leader così resilienti. E mi piacerebbe condividere le parole di Katiana su di loro:
Vorrei congratularmi con loro per il lavoro che stanno facendo. Save the Children ci sta aiutando in tutti i modi possibili, vi chiedo di continuare. Il proseguimento del vostro lavoro qui, potrebbe aiutare molto me e la comunità.
Vorrei promettere a Marie Darline e Lovely che saremo lì per loro, ma la realtà è che le telecamere e i giornalisti se ne sono andati, i finanziamenti per Haiti si sono prosciugati e non posso fare altro che ricordare una frase di cui le Ong hanno abusato cinque anni fa: "non dimenticare Haiti". Lo dicevamo all’unisono. Lo abbiamo fatto?