"I figli dell'Ebola" che non possono ritornare a casa
Pubblichiamo oggi la testimonianza di Mohammed, uno dei bambini incontrati nel centro ad interim che gestiamo in Sierra Leone, per chi direttamente o indirettamente è stato colpito dall’Ebola. Intervenire contro l’Ebola significa infatti anche favorire il superamento dei pregiudizi sociali che la malattia genera, supportare i bambini rimasti orfani e facilitare il reintegro sociale di chi ha sconfitto l'Ebola. Mohammed ha 11 anni ed ha perso suo padre e suo nonno a causa dell’Ebola. Sono stati accusati di aver portato la malattia nella comunità e per questo l’intera famiglia è stata mandata via e ha dovuto pagare una multa. [All'inizio dell'epidemia il Presidente della Sierra Leone aveva concesso ai capi locali il potere di avere un proprio statuto per contenere la malattia nelle loro comunità. Nel villaggio di Mohammed hanno imposto multe a chi portava l’Ebola e inoltre chiunque avesse lasciato il villaggio per più di due giorni, non sarebbe potuto tornare.] Mohammed si è ammalato due volte dopo la morte del padre, ma mai di Ebola. Lo hanno portato a uno dei centri ad interim di Save the Children per aiutarlo a recuperarsi dalla sua perdita. Ora vive con la madre e la nonna in una città più grande.
Mohammed così ha raccontato la sua storia
Eravamo a scuola quando il nostro insegnante ci ha parlato di una malattia chiamata Ebola e di persone che sarebbero venute qui con un farmaco. Ci ha detto che non avremmo dovuto accettarlo, perché era un veleno per uccidere le persone. Da allora tutti i genitori hanno smesso di mandare i figli a scuola. Qualche giorno dopo, mio nonno si è ammalato, mio padre si è preso cura di lui, puliva tutto. La persona che ha portato l’Ebola nel villaggio è stata la moglie di mio nonno, anche chi si è preso cura di lei è morto. Dopo un paio di giorni dalla sepoltura della moglie, mio nonno ha iniziato a vomitare. Dopo la sua morte lo hanno rinchiuso in un sacco di plastica e ci hanno detto che quando bevi il medicinale, dopo la morte, ti buttano nel fiume. Dopo altri due giorni mio padre si è ammalato iniziando ad avere forti dolori alla schiena. È stato difficile prendersi cura di lui, vomitava, aveva la diarrea. Dopo due giorni ci hanno detto che non potevamo vederlo. Lui non è andato in ospedale ed è morto a casa. Si è rifiutato di ricevere il trattamento a causa delle informazioni che aveva ricevuto in passato sul medicinale. Ero con mia nonna quando mi hanno detto che mio padre era morto di Ebola. Quando lo abbiamo detto al capo del villaggio, hanno detto che tutta la famiglia se ne doveva andare. Ci hanno portati via e ci hanno detto che dovevamo pagare una multa. Dopo la morte di mio padre sono andato da mia nonna. Ma dopo aver mangiato un po' di Garri ho iniziato a vomitare e mi hanno portato a Kenema (centro di trattamento per l’ebola). Sono guarito e non era Ebola. Dopo pochi giorni, mi sono sentito male di nuovo e ho di nuovo iniziato a vomitare. Mi hanno portato a Kailahun (un centro di trattamento di Ebola di recente apertura). Ma anche questa volta i risultati erano negativi e mi hanno mandato in ospedale dove sono guarito dopo aver pagato Le 170.000 (moneta locale). Io sapevo che non era Ebola, perché non avevo sintomi come diarrea o eruzioni cutanee. Dopo essere stato dimesso mi hanno portato all’ICC (centro di cura ad interim). Ero molto solo, piangevo e pensavo a mio padre. È per questo che mi hanno portato al centro, dove ho giocato e riso. Sono stato felice. Quando mi hanno detto che sarei dovuto andare lì, ho pianto perché pensavo sarebbe stato brutto, ma quando sono arrivato ho visto che si giocava insieme, che ci davano giocattoli e da mangiare 3 volte al giorno. Quando sono andato via mi hanno dato un pacchetto con riso, secchi e piatti. Ora vivo con mia madre e non voglio tornare al mio villaggio, perché là è più probabile che le persone non parleranno con me. Non posso tornare perché dicono che siamo figli dell’Ebola. Quando mio padre era vivo faceva tanto per me, mi incoraggiava. Ma ora lui è morto, non c'è nessuno a farlo allo stesso modo, neanche mia madre. I miei amici non sono mai venuti, ero isolato, mi sentivo male. Ero felice quando giocavamo, loro non mi avrebbero più parlato. Ma ora qui giochiamo insieme, loro sanno che non ho l’Ebola, lo possono vedere. Spero di diventare un medico. Avrò bisogno del sostegno dalla mia famiglia per istruirmi. Prima andavo a scuola, ma ora non lo faccio più, prima avevo un padre, ma ora non l’ho più. La malattia è ancora dietro l'angolo. Ho ancora paura di ammalarmi. L’Ebola è reale. Non puoi toccare nessuno mentre stai giocando. Se i tuoi genitori si ammalano, devi lasciarli”
Da qualche giorno è possibile donare direttamente da Facebook per sostenere i nostri sforzi contro l’Ebola attraverso la pagina www.facebook.com/fightebola. La nostra risposta non si concentra solo sugli interventi sanitari, ma anche su protezione, educazione e nutrizione dei 10 milioni di bambini nelle zone colpite.