Giornata del Rifugiato: "In Siria non ci mancava nulla per essere felici"
Oggi è la Giornata del Rifugiato, un'occasione mondiale per ricordare il dramma e le sofferenze di persone che affrontano viaggi lunghi anche anni per fuggire dalle violenze e dagli abusi dei diritti umani che vivono nei loro paesi di origine. Quest'anno vogliamo ricordare ancora l'emergenza siriana, infatti quasi tutti i minori accompagnati prima soccorsi e poi sbarcati in Italia dal 1 gennaio al 31 maggio 2014, 1.542 su 2.124, sono bambini siriani, in fuga dal conflitto iniziato 3 anni fa.
Un viaggio terribile iniziato nella maggior parte dei casi 1 o 2 anni fa per sottrarsi a combattimenti che non risparmiano città e villaggi in tutta la Siria, che colpiscono la popolazione civile e soprattutto i bambini, uccisi, torturati o armati, esposti ad amputazioni o malattie gravi per mancanza di cure, spesso senza cibo sufficiente e senza acqua. Fra i bambini arrivati in Italia c'è Nadia, che dopo essere scappata dalla Siria, da Homs dove la sua casa è stata distrutta, ha dovuto affrontare un'altra fuga, dalla Libia e dalle molestie di un uomo violento.
Ogni volta che le persone scoprivano che eravamo siriani ci attaccavano verbalmente o con le armi, ci dicevano di tornare al nostro paese. In particolare, c’era un uomo, un vicino di casa, che mi voleva prendere in moglie, io non volevo, i miei genitori neanche ovviamente. Così ha iniziato a minacciare la mia famiglia, dicendo che avrebbe ucciso tutti, se non avessimo acconsentito. Ci sono tante ragazze siriane nelle mie condizioni. Non solo siriane, certo, ma noi siamo particolarmente colpite perché molte hanno la pelle e gli occhi chiari, una rarità disgustosamente apprezzata da tanti uomini. Ci sono altre ragazze che, come me, sono scappate via con la famiglia.
Per il viaggio spiega Mervat, la madre di Nadia, una donna molto curata sulla quarantina, si sono messi d’accordo con altre famiglie per partire in gruppo, pagando 1.500 dollari a persona.
Il viaggio è stato un incubo – confessa la donna - al momento di partire ci hanno ammassato su un gommone, da lì siamo stati spostati su una barca che però non funzionava. La persona che ci ha portato sul barcone ci ha lasciato ed è andata via. Tre ragazzi siriani hanno provato a farla funzionare. Poi abbiamo iniziato a imbarcare acqua, eravamo 150 persone. Quando ho visto l’acqua che mi bagnava le le caviglie ho pensato che non sarebbe successo niente, poi però ho visto che saliva, i miei jeans si sono inzuppati, vedendo che i libici se ne erano tornati indietro a riva ho pensato che ci avevano lasciato lì, a morire.Non ho avuto paura solo per i miei figli. La barca era piena di bambini che hanno iniziato a chiedere ai genitori: “Stiamo per morire?”. Abbiamo provato a tranquillizzarli dicendo che presto sarebbero arrivati gli italiani a salvarci. Finché non sono arrivati veramente. Noi avevamo provato a fare il possibile. Abbiamo cercato di ributtare fuori dal barcone l’acqua. Ma ne entrava sempre di più. Arrivati in Sicilia, ci hanno portato in un centro d’accoglienza a Siracusa per riposare, ci hanno chiesto se volevamo dare le impronte per l’identificazione ma abbiamo preso tempo dicendo che eravamo stanchi e bagnati. Ci hanno lasciato riposare, poi ci hanno portato a Roma da Catania con un aereo. A Roma ci hanno portato in un altro centro di accoglienza, dal quale ci siamo allontanati senza aver dato le impronte. Così siamo arrivati a Milano, sapevamo che qui avremmo trovato un modo per arrivare in Danimarca dove vive mia zia. Appena arriverò io e mio fratello Humam ci iscriveremo a scuola.
Nadia è la più grande dei suoi fratelli, l’unica che probabilmente non riuscirà mai a scrollarsi di dosso una nostalgia che le è rimasta dentro.
Mi mancherà sempre Homs. Avevo una vita semplice e bella. Andavo a scuola e avevo le mie compagne con cui mi confidavo, avevamo tanti sogni che avremmo voluto realizzare in Siria perché lì non ci mancava nulla per essere felici.
Per saperne di più sulla fuga dei rifugiati siriani, scarica il nostro rapporto in italiano.