Una fame da morire. Vecchie e nuove sfide nel contrasto alla malnutrizione
I progressi nel contrasto alla malnutrizione sono stati molti, ma in un mondo globalizzato è inaccettabile che vi siano ancora dei bambini che muoiono a causa della mancanza di cibo, di acqua e di cure.
Era il 1967 e per la prima volta il mondo veniva sconvolto dalle immagini dei bambini del Biafra, con le braccia e le gambe scheletriche, la pancia gonfia, ridotti alla fame durante una drammatica guerra civile per l’indipendenza della provincie sudorientali della Nigeria, che per tre anni ha decimato le popolazioni di intere regioni del Paese. Cinquant’anni dopo, la malnutrizione resta un killer silenzioso che continua ad uccidere milioni di bambini. La metà dei 6 milioni di bambini che perdono la vita prima dei 5 anni è per cause prevenibili e curabili.
I progressi nel contrasto alla malnutrizione da allora sono stati molti, ma in un mondo globalizzato in cui la scienza e le innovazioni tecnologiche hanno dato a molti la possibilità di migliorare le proprie condizioni di vita, è inaccettabile che vi siano ancora dei bambini che muoiono a causa della mancanza di cibo, di acqua e di cure.
Eppure sono tantissimi quelli che ogni giorno lottano per sopravvivere, senza avere lo stretto indispensabile per farlo. Come in quelle immagini di 50 anni fa, anche questi bambini hanno braccia e gambe sottili, spesso non dimostrano neanche la metà dei loro anni, perché la malnutrizione ha bloccato la loro crescita, non hanno la forza di camminare, di andare a scuola, di costruirsi un domani. Sono i bambini che il mondo ha dimenticato e che non vuole vedere, che sono stati lasciati indietro dal progresso, che a volte lo intravedono all’orizzonte, ma che ne sono stati tagliati fuori.
Vivono negli slum delle grandi megalopoli, tra una discarica e un grattacielo di una grande compagnia finanziaria o nei villaggi più remoti dell’Africa dove fanno fatica ad arrivare anche le organizzazioni umanitarie. Faticano a sopravvivere nelle aree assediate dalle guerre dove non si muore solo per le bombe o per i cecchini ma perché non c’è più niente da mangiare, così come nelle immense distese desertiche create dalla siccità e dai cambiamenti climatici.