Un racconto dal campo profughi di Zaatari
Un mese fa sono stata in visita al campo profughi di Zaatari, in Giordania, nato nel 2012 all’inizio del conflitto siriano come campo temporaneo. Dista circa 70km da Amman, la capitale, e dopo 7 anni ospita ancora oggi oltre 80.000 persone: una città. Uno dei campi profughi più grandi al mondo. A vederlo si presenta come un insieme di strade, tende, prefabbricati, container, bancarelle, negozietti di fortuna, nei quali la vita scorre.
Un’area di oltre 5 km² circondata da un filo spinato; una città che sembra sospesa dove nascono, crescono, studiano e provano ad imparare un mestiere i bambini e poi i giovani. Per entrare ed uscire è necessario avere il permesso del Governo, rilasciato per lo più solo a chi, ad esempio come noi, da anni svolge un ruolo attivo al suo interno. Per le persone che vi risiedono invece è più complicato. Purtroppo non è facile trovare lavoro fuori e questo implica la loro permanenza nel tempo all’interno. E gli ingressi sono solo due. Due accessi per 80.000 persone!
Parlo con Ban, la responsabile di progetto che mi affianca nella visita. Mi dice che in questi anni di conflitto in Siria abbiamo raggiunto come risposta complessiva circa 4,2 milioni di persone, di cui oltre 2,7 milioni bambini. Sono tantissimi. Ma ancora di più sono quelle che hanno ancora bisogno di aiuto. Mi parla di oltre 13 milioni di persone. Un numero davvero enorme.
Il primo intervento che ho modo di vedere, e che portiamo avanti in collaborazione con il World Food Program, consiste nella consegna giornaliera del pane alle circa 80.000 persone presenti e residenti. Mi colpisce vedere così tanti uomini e donne in fila aspettare questo appuntamento.
Ban mi racconta di un altro nostro intervento che consiste nella distribuzione delle schede elettroniche, contenenti denaro, che possono esser utilizzate liberamente per la spesa nei due supermercati presenti nel campo. Un intervento importante che mira a restituire il senso di dignità e di libertà di scelta sui quali lavoriamo molto.
Ci spostiamo verso i nostri asili: dall’inizio del conflitto ne abbiamo aperti 3. In questi anni hanno accolto oltre 16.000 bambini. Sono luoghi bellissimi, colorati, pieni di giochi, quaderni e blocchi da disegno, libri illustrati e altri materiali didattici per giocare e imparare. Sono spazi protetti e sicuri, accoglienti, in cui i bambini insieme ai nostri operatori, trascorrono gran parte della loro giornata. Un intervento importantissimo, anzi unico, visto che prima del nostro arrivo non esistevano spazi simili all’interno del campo.
In questi luoghi i nostri operatori garantiscono supporto psicologico anche le mamme: in moltissimi casi si tratta di donne sole e tra le tante attività proposte c’è anche quella di attivare dei percorsi di apprendimento da portare avanti a casa con i piccoli. Un’attività fondamentale, mi dicono le mamme.
Una delle bambine che ho incontrato si chiama Amina. E’ nata qui, come altri 15.000 bambini che oggi risiedono nel campo. Bambini senza alcuna cittadinanza, né siriana, né giordana. Sono solo bambini. Amina frequenta uno dei nostri asili e oggi mi ha detto che da grande vorrebbe diventare “insegnante”. Nonostante tutto, qui la vita scorre e questa cosa mi rasserena. Ancora di più, mi riempie di gioia l’idea di aver posto, insieme a voi sostenitori, le basi per dare ad Amina e tanti bambini come lei la percezione di vivere la propria vita con lo sguardo rivolto al futuro, con dei sogni che presto o tardi si realizzeranno, fuori da qui.
Da quando sono tornata in Italia sono ancora più consapevole dell’importanza del nostro ruolo in un contesto così complesso ma soprattutto convinta di dover fare ancora e meglio e di poterlo fare solo grazie a chi ci sostiene con fiducia e costanza.
Purtroppo la situazione dei bambini siriani a sette anni dalla guerra è ancora drammatica.
Idlib, la regione Nord Ovest della Siria, ospita ad oggi il più alto numero di sfollati interni ed è una delle aree del paese a più alta emergenza umanitaria. Molti i bambini che sono stati costretti a lasciare le proprie case, alcuni anche più di sette volte dall’inizio del conflitto. I minori siriani sono infatti quotidianamente costretti ad affrontare il rischio di morte, di menomazione o di venire separati dalla propria famiglia.
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Francesca Giannetta, Responsabile Grandi Donatori, Lasciti ed Eventi