Crisi rifugiati: vite che potrebbero essere la nostra
Aylan, si chiamava il bambino siriano annegato ed approdato sulle coste turche, e che insieme alla madre e al fratello stava raggiungendo il padre, fuggendo da Kobane, per provare a ricostruire una vita altrove.
Aylan, la sua mamma e il suo fratellino non ce l’hanno fatta, come quei bambini fotografati sulle coste libiche, distesi come se dormissero sull’acqua.
Questi piccoli non avranno più un futuro e altri in questo momento sono ammassati con le proprie famiglie ai confini dell’Europa, con le vite bloccate da un muro e il filo spinato riflesso negli occhi. I bambini “segnati” dalla guerra da cui scappano e da un pennarello indelebile al confine ceco e macedone. I bambini che vengono allontanati con i gas lacrimogeni, nonostante abbiano già pianto tanto durante le loro giovani vite.
Sono fotogrammi che popolano le pagine dei giornali, i social media e che stanno animando il dibattito. Aldilà delle polemiche che queste foto stanno generando, sono immagini che rappresentano inaccettabili violazioni dei più elementari diritti dei bambini e che riflettono l’inadeguatezza e il fallimento degli interventi messi in atto per rispondere ad una crisi umanitaria di così grandi dimensioni.
Sono immagini che ritraggono prima di tutto persone, che raccontano storie di vita, di bambini, donne, uomini, famiglie in fuga, in cerca di un futuro diverso. Come la famiglia di Noor, la cui storia è questa.
Anche se nessuno dalla nostra famiglia è stato ferito, in Siria non c’era una vita vera per noi. Siamo scappati perché avevamo paura e perché volevamo dare ai nostri figli un futuro. Per mio marito l’istruzione è una priorità assoluta e in Siria i nostri figli non potevano più andare a scuola. Eravamo in 45 sulla barca e ci sono volute due ore per arrivare a Kos.
Ero così spaventata quando ho visto tutte quelle persone. Era molto affollato. Quando il trafficante ci ha chiesto di salire sulla barca ho iniziato a piangere a dirotto perché avevo così paura di stare su quella barca. Ho pianto molto in questi giorni e so che la mia famiglia sta male per me, ma non riesco a smettere.
Ci hanno dato dei giubbotti di salvataggio di scarsa qualità, non sarebbero stati in grado di salvarci dall’annegamento. Devi pagarli e costano 10 dollari. Il viaggio in barca è andato bene, perché fortunatamente il tempo era buono. Mio marito ha fatto delle foto della traversata, ma io voglio dimenticare tutto, non voglio ricordare questo viaggio.
Mai! Abbiamo ancora molta strada da fare e non sappiamo cosa ci aspetta, se saremo felici o no. Stiamo facendo tutto questo per i bambini, con la speranza che abbiano una casa tranquilla, una migliore istruzione. Spero che quando raggiungeremo la Danimarca non ci rimandino indietro, in Grecia.
Questa è la storia di una delle famiglie incontrate durante il nostro intervento in Grecia, persone che avevano una vita normale, finita con l’inizio della guerra. Una famiglia come molte, che potrebbe essere la nostra se non fosse per il fatto che loro hanno rischiato la vita per avere un futuro.
Per questo oggi più che mai chiediamo con forza una risposta politica strutturale che fermi questa escalation di violenza e disumanità, quello che sta accadendo è veramente troppo e non può essere più tollerato.
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